Trasparenza dell’amministrazione e tutela della privacy: Le ultime dal Garante

Di recente il Garante della Privacy si è pronunciato sul caso di una Pubblica Amministrazione che, facendo leva sul principio di trasparenza, aveva pubblicato sul proprio sito istituzionale dati personali di soggetti beneficiari di contributi economici regionali.
In particolare, si trattava di studenti che avevano partecipato a una procedura selettiva per l’erogazione di un contributo economico per l’acquisto di libri di testo, di apparecchiature tecnologiche e strumenti per la didattica.
La P.A. ha il dovere di pubblicità e trasparenza dei propri atti, ma quali sono i limiti che essa incontra con particolare riferimento al trattamento dei dati personali?

Facciamo chiarezza.

La Pubblica Amministrazione può diffondere dati personali solo se ciò è consentito dalla legge e nel rispetto di principi in materia di protezione dei dati personali, tra cui il principio di c.d. minimizzazione, in forza del quale i dati personali devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati.
Inoltre, le Linee Guida del Garante della Privacy prevedono una serie di limitazioni alla pubblicazione degli atti con cui si concedono i benefici economici, poiché non possono essere pubblicati i dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici.

Il Garante, pertanto, ha ravvisato la non correttezza nel trattamento dei dati trattati dall’Amministrazione, poiché sono stati diffusi dati personali di soggetti beneficiari di contributi economici inferiori a mille euro, riservati a soggetti con un ISEE basso, idonei a rivelare una situazione di disagio economico-sociale degli interessati, in violazione della normativa di settore nonché in violazione del principio di minimizzazione.
Pertanto, in data 22 luglio 2021 il Garante della Privacy ha adottato un’ordinanza con cui si ingiunge all’Amministrazione il pagamento di somma pari ad Euro 200.000,00.

Di seguito il testo dell’ordinanza:
https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9697724

Roma, 2/10/2021.

Avvocato Impellizzeri Valerio

Il ricorso gerarchico in materia militare

Il ricorso gerarchico è stato sino all’inizio degli anni ‘70 un efficace strumento di tutela utilizzato per la contestazione – in via amministrativa – di innumerevoli provvedimenti adottati dalla Pubblica Amministrazione.

Con l’entrata in vigore della Legge 6 dicembre 1971 n. 1034 (c.d. Legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali), la regola secondo cui l’esaurimento dei ricorsi amministrativi ordinari costituiva il presupposto per adire gli organi giurisdizionali è stata definitivamente superata, secondo quanto disposto dall’art. 20 della Legge medesima.

Attualmente l’utilizzo del procedimento per ricorso gerarchico è limitato ad un esiguo numero di settori giudiziali: in particolare, una materia di rilievo nella quale tale strumento risulta di fondamentale importanza è quella militare, ove la proposizione del ricorso gerarchico costituisce condizione per l’esercizio della successiva azione dinnanzi al TAR competente, ovvero per l’avvio del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

In particolare, il previo avvio del ricorso gerarchico è necessario per la contestazione delle sanzioni disciplinari di corpo inflitte al militare (richiami, consegna e consegna di rigore).

Il ricorso gerarchico in materia militare

Difatti, l’art. 1363 del D.Lgs. 66/2010 (c.d. “Codice dell’Ordinamento Militare”) stabilisce che “avverso le sanzioni disciplinari di corpo non è ammesso ricorso giurisdizionale o ricorso straordinario al Presidente della Repubblica se prima non è stato esperito ricorso gerarchico o sono trascorsi novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso”.

La norma richiamata, dunque, prevede l’obbligo per il militare di attivare anticipatamente il rimedio del ricorso amministrativo ai sensi dell’art. 1 D.P.R. n. 1199/1971: in ordine alla contestazione delle sanzioni disciplinari, la proposizione del ricorso gerarchico costituisce onere imprescindibile per il titolare di una posizione giuridica tutelata, pena l’inammissibilità del ricorso giurisdizionale.

È bene precisare che il militare che ha attivato il procedimento per ricorso gerarchico, decorsi novanta giorni dalla notifica del ricorso, potrà proporre ricorso giurisdizionale o straordinario al Presidente della Repubblica avverso il silenzio-rigetto, nonché contro il provvedimento ritenuto illegittimo, nei rispettivi termini di decadenza.

Roma, 23/12/2020.

Avvocato Impellizzeri Valerio

Il mobbing nel pubblico impiego: peculiarità del processo amministrativo

Il fenomeno del mobbing, oltre che nell’ambito del lavoro privato, è presente e diffuso anche nel settore del pubblico impiego, ove è la Pubblica Amministrazione a ricoprire il ruolo di datore di lavoro.

Infatti, avviene sovente che la P.A., anziché porre in essere atti volti a garantire l’interesse pubblico, adotti provvedimenti contrari alla normale gestione del proprio personale, addivenendo alla lesione del bene della vita costituito dal regolare svolgimento del rapporto di lavoro.

La condotta che integra la fattispecie di mobbing nel rapporto di lavoro tra dipendente pubblico e Amministrazione è caratterizzata dai seguenti elementi: a) molteplicità di comportamenti aventi carattere persecutorio; b) evento lesivo della salute o della personalità del dipendente pubblico; c) nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’intento persecutorio (elemento soggettivo).

I sopra detti elementi devono tutti coesistere affinché vi sia un comportamento mobizzante: la sussistenza di condotte persecutorie e discriminatorie deve risultare da più provvedimenti (o comportamenti) che integrano un disegno volto alla dequalificazione o emarginazione del lavoratore.

Al fine di inquadrare il regime di responsabilità del datore di lavoro occorre far riferimento alla norma di cui all’art. 2087 del Codice Civile, la quale non rappresenta un’ipotesi di responsabilità oggettiva, poiché deve essere provato il danno subito dal lavoratore.

Il mobbing nel pubblico impiego: peculiarità del processo amministrativo

Invero, l’impiegato pubblico che lamenta una condotta persecutoria nei propri confronti è tenuto a provare, con specifiche e puntuali allegazioni, la sussistenza di un complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione diretto nei confronti dello stesso (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 4135/2013).

Proprio con riferimento al pubblico impiego, la giurisprudenza amministrativa ha fornito importanti precisazioni affinché si addivenga al risarcimento del danno a seguito di condotte mobizzanti.

Difatti, recentissima sentenza del TAR Lombardia ha previsto che “la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, ritenuti illegittimi ed adottati dall’Amministrazione nell’ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l’asserita modifica peggiorativa del rapporto di lavoro (…) il pubblico dipendente è tenuto a reagire prontamente contro gli ordini illegittimi, compresi quelli che ledono le sue prerogative professionali, giacché il metus del lavoratore nei confronti del datore di lavoro – che giustifica la mancata immediata reazione – è tipico dei rapporti senza stabilità(TAR Lombardia, Milano, sentenza n. 536 del 23 marzo 2020).

Ne discende che il pubblico dipendente è tenuto ad impugnare tutti i provvedimenti immediatamente lesivi adottati dall’Amministrazione nei propri confronti, dinnanzi al giudice competente (Giudice Amministrativo o Giudice del Lavoro), facendosi anche carico dell’aggravio di costi che tale attività processuale comporta. Si attende pertanto una pronuncia del Consiglio di Stato che faccia chiarezza sul tema, tenuto conto che tale specificità potrebbe risultare assai gravosa per il lavoratore dal punto di vista processuale, poiché quest’ultimo, oltre alla sopra detta attività impugnatoria, è tenuto a fornire la prova dell’attività persecutoria subìta.

Avvocato Impellizzeri Valerio

Roma 30/03/2020