Il mobbing nel pubblico impiego: peculiarità del processo amministrativo

Il fenomeno del mobbing, oltre che nell’ambito del lavoro privato, è presente e diffuso anche nel settore del pubblico impiego, ove è la Pubblica Amministrazione a ricoprire il ruolo di datore di lavoro.

Infatti, avviene sovente che la P.A., anziché porre in essere atti volti a garantire l’interesse pubblico, adotti provvedimenti contrari alla normale gestione del proprio personale, addivenendo alla lesione del bene della vita costituito dal regolare svolgimento del rapporto di lavoro.

La condotta che integra la fattispecie di mobbing nel rapporto di lavoro tra dipendente pubblico e Amministrazione è caratterizzata dai seguenti elementi: a) molteplicità di comportamenti aventi carattere persecutorio; b) evento lesivo della salute o della personalità del dipendente pubblico; c) nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’intento persecutorio (elemento soggettivo).

I sopra detti elementi devono tutti coesistere affinché vi sia un comportamento mobizzante: la sussistenza di condotte persecutorie e discriminatorie deve risultare da più provvedimenti (o comportamenti) che integrano un disegno volto alla dequalificazione o emarginazione del lavoratore.

Al fine di inquadrare il regime di responsabilità del datore di lavoro occorre far riferimento alla norma di cui all’art. 2087 del Codice Civile, la quale non rappresenta un’ipotesi di responsabilità oggettiva, poiché deve essere provato il danno subito dal lavoratore.

Il mobbing nel pubblico impiego: peculiarità del processo amministrativo

Invero, l’impiegato pubblico che lamenta una condotta persecutoria nei propri confronti è tenuto a provare, con specifiche e puntuali allegazioni, la sussistenza di un complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione diretto nei confronti dello stesso (cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 4135/2013).

Proprio con riferimento al pubblico impiego, la giurisprudenza amministrativa ha fornito importanti precisazioni affinché si addivenga al risarcimento del danno a seguito di condotte mobizzanti.

Difatti, recentissima sentenza del TAR Lombardia ha previsto che “la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, ritenuti illegittimi ed adottati dall’Amministrazione nell’ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l’asserita modifica peggiorativa del rapporto di lavoro (…) il pubblico dipendente è tenuto a reagire prontamente contro gli ordini illegittimi, compresi quelli che ledono le sue prerogative professionali, giacché il metus del lavoratore nei confronti del datore di lavoro – che giustifica la mancata immediata reazione – è tipico dei rapporti senza stabilità(TAR Lombardia, Milano, sentenza n. 536 del 23 marzo 2020).

Ne discende che il pubblico dipendente è tenuto ad impugnare tutti i provvedimenti immediatamente lesivi adottati dall’Amministrazione nei propri confronti, dinnanzi al giudice competente (Giudice Amministrativo o Giudice del Lavoro), facendosi anche carico dell’aggravio di costi che tale attività processuale comporta. Si attende pertanto una pronuncia del Consiglio di Stato che faccia chiarezza sul tema, tenuto conto che tale specificità potrebbe risultare assai gravosa per il lavoratore dal punto di vista processuale, poiché quest’ultimo, oltre alla sopra detta attività impugnatoria, è tenuto a fornire la prova dell’attività persecutoria subìta.

Avvocato Impellizzeri Valerio

Roma 30/03/2020

studio legale IMI viale carso,1 - roma

La partecipazione del contribuente al procedimento tributario

La partecipazione del privato al procedimento amministrativo è un principio ormai consolidato e pacificamente riconosciuto, costituendo essendo stesso espressione dei princìpi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa. Viceversa, in materia tributaria il diritto del cittadino a partecipare alla fase di accertamento stenta a trovare un pieno riconoscimento.

Difatti, prima dell’entrata in vigore dello Statuto del contribuente (Legge n. 212/2000) mancava nell’ordinamento una disciplina unitaria che consentisse al medesimo di partecipare alla fase di accertamento tributario tramite la presentazione di memorie, istanze e documenti.

In altri termini, il privato che veniva sottoposto ad accertamento tributario poteva far riferimento solo a specifiche normative di settore, tenuto conto dell’assenza di una disciplina analoga a quella di cui alla legge n. 241/1990 relativa al procedimento amministrativo.

In ambito tributario un’evoluzione sotto il profilo della partecipazione del contribuente alla fase endoprocedimentale sembrava essersi concretizzata con l’entrata in vigore della legge n. 212/2000 (c.d. Statuto del Contribuente), con cui il Legislatore ha previsto la facoltà per il contribuente di attivarsi per la propria difesa già in fase di accertamento.

La partecipazione del contribuente al procedimento tributario

Difatti, l’articolo 12, comma 7, della Legge n. 212/2000 prevede che “Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.

Ad oggi, non è possibile affermare in concreto la sussistenza del diritto del contribuente a partecipare alla fase endoprocedimentale. Tuttavia è opportuno segnalare la sentenza n. 21071/2017 della Corte di Cassazione che, inscrivendosi in un consolidato orientamento giurisprudenziale espresso a più riprese della Corte di Giustizia UE, ha da un lato riconosciuto il diritto del contribuente a partecipare al contraddittorio endoprocedimentale per i c.d. tributi armonizzati (tra i più importanti l’I.V.A.), e dall’altro non ha ritenuto rinvenibile nell’ordinamento un tale diritto per i tributi c.d. “non armonizzati” (ad esempio IRPEF e tributi locali).

Un’importante novità è rappresentata dall’adozione del Decreto Legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito con Legge 28 giugno 2019, n. 58 (c.d. “Decreto Crescita”), con cui si prevede che a decorrere dal 1° luglio 2020, l’ufficio accertatore notifica al contribuente un invito a comparire per l’avvio del procedimento di accertamento con adesione, in assenza del quale l’accertamento è illegittimo.

La detta norma non ha, tuttavia, una portata generale poiché si applica agli accertamenti relativi all’imposta sui redditi e all’IVA, mentre rimangono del tutto esclusi dall’ambito di applicazione i tributi locali.

Alla luce del sopra detto intervento legislativo si auspica la piena adozione di tale strumento da parte delle amministrazioni finanziarie per una più compiuta applicazione del principio di leale collaborazione e buona fede che, come previsto dall’art. 10 della Legge n. 212/2000, sono un imprescindibile elemento che caratterizza i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria.

Roma, 02/03/2020

Avvocato Valerio Impellizzeri

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Tel. 06.89024170

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